articolo di Giuseppe Romiti
Chi la vuole cotta e chi cruda
Qualche giorno fa, dopo l’inaugurazione dell’intervento di rigenerazione della scalinata di via Tremiti a Roma Monte Sacro, un’ampia e diversificata platea di residenti e appassionati ha manifestato la sua soddisfazione e ringraziato le associazioni promotrici (“99 Non è Cento”, “Arte e Città a Colori” e Retake Roma). Nello stesso tempo, si è levata qualche voce contraria.

“Se prima era sporca e piena di erbacce, ora è orrenda” (Carla Girandola Colussi), “La realtà è una sola: quella scalinata era molto più fica prima” (Michele Maiella), “una toppa peggiore del buco” (Marco Bassetti). Altri, più argomentati, non criticano l’operazione di bonifica (bontà loro!) ma piuttosto la scelta di scrivere una poesia, “L’Infinito” di Leopardi, in bella calligrafia sulle alzate dei gradini.
Grazie al cielo c’è chi si diverte, e non sono mancate le ironie. Patrizia Pisani avrebbe scelto un verso montaliano più pertinente (“cocci aguzzi di bottiglia”) in memoria del mucchio di vetri che giaceva perennemente sui gradini. Mentre Roberto Radimir trova: “che l’Infinito sia una scelta appropriata per quella scalinata. L’ho fatta una volta e continuavo a chiedermi: ma quando c…o finisce?”.
Finalmente, l’assessore alla cultura Christian Raimo ci invita a spostare il discorso sul piano ideologico/politico/artistico, dichiarando che “questa scalinata ora è un pugno nell’occhio”, dato che l’intervento si basa su un “Presupposto ideologico e politico, un’equazione falsa, ossia che decoro sia uguale ad arte”, “un colore e un progetto artistico che calano nella cultura e nella storia del quartiere come corpi estranei”.
Chi di murales ferisce di murales perisce
A beneficio della discussione è utile citare la netta critica nei confronti di un’opera di street art fortemente voluta dall’assessore Raimo, espressa il 23 febbraio scorso da Vittorio Parisi, giovane direttore degli studi e della ricerca dell’École nationale supérieure d’art et centro d’arte contemporanea Villa Arson a Nizza, studioso fra i più ascoltati sul rapporto tra il graffiti writing, la street art e i non-luoghi urbani.

Ascoltiamolo : “(…) All’invasività infestante del writing se ne sostituisce un’altra, quella monumentale del muralismo. Viene da chiedersi come sia possibile che simili esercizi steroidei di pittura murale su intere facciate non siano percepiti come un pugno nell’occhio (…) Vi è poi da ricordare la componente intrinsecamente populista e gravida di retorica del muralismo, e quello di Jorit Agoch ne è l’apoteosi: tutto, in quelle giganto-agiografie urbane, è retorico, dalla scelta del soggetto (volti di eroi o martiri, ipermediatizzati o dimenticati, cari a tutti o a specifiche comunità locali a seconda dei casi) alla scelta tecnica dell’iperrealismo, dalla “site-specificity” alla composizione suggestiva dei primissimi piani con le distintive decorazioni facciali simil-tribali. Considerato che tra il writing e questo muralismo corre praticamente la stessa differenza che c’è tra avanguardia e kitsch, se prima era poco credibile che il Raimo-assessore prendesse le difese del vandalismo, adesso è quanto meno inaccettabile che il Raimo-intellettuale celebri questo tipo di interventi. (…)” (il post completo si trova a questo indirizzo).
Non possiamo che essere profondamente costernati nel ricordare la tragica fine di quel povero ragazzo, Valerio Verbano, avvenuta durante un vile agguato compiuto da giovani di opposta fazione di ispirazione fascista. Ma, tornando all’oggetto dell’indagine, osserviamo come certe espressioni (“pugno nell’occhio”, “kitsch”, “retorica”), che erano da poco uscite dalla bocca dei severi censori delle opere di “decoro urbano”, ora se le trovano autorevolmente ritorte contro.
I due casi di stroncatura appena descritti non sono isolati, abbiamo letto dei dubbi sorti a proposito del murales realizzato recentemente a piazza dell’Immacolata a San Lorenzo che non sembra aver introdotto, come era stato dichiarato nelle pur lodevoli intenzioni dei promotori, elementi positivi a favore della socialità dei cittadini residenti, che invece continuano a subire pesantemente l’inciviltà degli avventori notturni, il disagio per la presenza di bivacchi e l’aggressività del writing e delle affissioni abusive.
Abbiamo visto bocciare sul nascere progetti analoghi di “rigenerazione urbana” nel quartiere Tre Fontane, a causa della ferma opposizione di una associazione locale. Anche se, a conferma della imprevedibilità dell’esito di questo tipo di interventi, le stesse associazioni proponenti e gli stessi autori hanno ottenuto una calorosa accoglienza dirottando le risorse disponibili nella realizzazione di un progetto in un altro quartiere più “ricettivo”. È evidente che non basta la buona fede e volontà di amministrazioni e associazioni locali per evitare le divisioni. Serve anche molta attenzione alla realtà locale e l’attivazione di un efficace processo partecipativo, a partire dalla fase di progettazione.
Comunque sia, anche quando sono “autorizzate” nel modo più ampio e condiviso, le opere di street art si prestano facilmente alla polemica, a causa della loro visibilità e invasività. È quasi inevitabile che qualcuno le percepisca come delle imposizioni arbitrarie. Non è un caso, se ci pensiamo bene, che nella storia passata il muralismo fu una espressione tipica dei regimi totalitari.

Contro il “decoro”
Allora, cos’è che può salvare le incombenti e voluminose opere di street art dall’accusa di “arroganza nello spazio pubblico? Forse dotandole di forme e significati che si calano in modo coerente nel tessuto sociale e nei luoghi a cui sono destinate? Difficile non essere d’accordo con questo principio, ma non si può pensare di risolvere la questione stabilendo che un’opera è adatta solo se rientra nei propri schemi ideologici, tirando in ballo, per quelle non “gradite”, il termine “decoro”, che Marianella Sclavi definirebbe una parola di tipo “soporifero”, cioè usata ad arte per classificare, stigmatizzare e chiudere un discorso sin dal principio, escludendo ogni possibile confronto.
Se si scorrono le pubblicazioni sull’argomento (Pitch, Dal Lago, Bukowski) si imparano molte cose interessanti sul “decoro”, inteso come attitudine del potere a imporre “una facciata apparentemente dignitosa che ha il solo scopo di nascondere e controllare realtà̀ scomode o inconfessabili” “Cedendo all’eterna tentazione di acquisire consenso facendo leva sullo stato di ansia della popolazione, senza però preoccuparsi di incidere realmente sulle cause che lo provocavano” (cfr. blog Retake Roma, “Contro l’ipocrisia del “decoro”: repressione, manutenzione o capitale sociale? La Teoria delle finestre rotte”, marzo 2021). Se c’è un limite in queste analisi, lo si trova in quel modo di guardare le persone: principalmente come portatrici o di bisogni o di biechi interessi, e non di capacità ancora inespresse e responsabilità che potrebbero assumersi. Uscendo da questa ottica “conflittuale” si potrebbe invece intravvedere la opportunità di trasformare l’ansia, la rabbia e l’indignazione per lo stato di degrado in cui versano le nostre città in impegno concreto nella comunità̀ urbana, per fare emergere le tante energie nascoste, spendibili in senso sociale e solidale per la cura dei beni comuni.
Un effetto di questa limitazione è la schematica apologia di tutto ciò che non è “decoroso”, nell’illusione che i segni di ribellione, i comportamenti fuori le righe, i conflitti, possano costituire un argine nei confronti dei processi di mercificazione che, indubbiamente, sono in atto.
Salvo poi restare esterrefatti di fronte all’abilità del capitalismo nel riuscire ad estrarre valore anche dalle realtà più trasgressive e conflittuali. Vediamo infatti che, sotto il nostro naso, una multinazionale alberghiera sfrutta l’immagine “alternativa” dei quartieri “ribelli” della Bolognina e di San Lorenzo, ridotti a scenari senza anima, per promuovere resort pregiati costruiti al posto dell’edilizia popolare, di cui la città potrebbe avere più bisogno.

A chi non piace il lavoro di “cura”?
Che, poi, detto per inciso, il bisogno che ci si prenda cura e si rispetti lo spazio pubblico non è prerogativa solo di noi fissati e “decorosi” retakers.
Per esempio, se atterriamo nel profilo Facebook di MrKlevra, notevole street artist romano, autore di intriganti calligrafie e icone orientali, notiamo che non ha affatto gradito l’imbrattamento di una delle sue affascinanti Madonne, affissa vicino ad un palazzo occupato nel quartiere Ostiense.

(In realtà MrKlevra in altri post si dimostra più tollerante, ma si intuisce una comprensibile sofferenza autoriale).
Lo stesso Raimo, fautore della libertà di vandalismo e affissione abusiva, ha sentito il bisogno di “prendersi cura” di un manifesto abusivo non di suo gradimento. E non ci si venga a dire che poteva farlo perché era opera di estrema destra. Nel manifesto c’era una rivendicazione popolare, non sappiamo se giusta o sbagliata, ma senz’altro condivisa da larga parte dei residenti, che alla fine ha prevalso nel confronto pubblico e democratico.

Infine, anche il già citato street artist Jorit, durante la preparazione della sua ultima opera, ha sentito il bisogno di un ambiente più “curato”, visto il trattamento ricevuto ad opera di un tipico frequentatore degli spazi trasgressivi, un punkabbestia. Rivelando, peraltro, inaspettate pulsioni di tipo securitario-populiste.

Eppure, si continua a faticare per riconoscere che il lavoro di “cura”, è la linfa vitale che scorre dietro i muri dei nostri quartieri. Eppure, è sempre davanti ai nostri occhi. Viene dal movimento degli adulti che, trafelati, vanno dal posto di lavoro al supermercato e quindi a casa per occuparsi dei figli o degli anziani. Nasce dal lavorio dei modesti pensionati che, dopo averne viste di tutti i colori, cercano nell’ordine e nell’armonia degli spazi una ricompensa per i tanti schiaffi ricevuti nella vita. Lo alimentano i volontari che gratuitamente si occupano delle persone più fragili. Sgorga da quel papà che prima di uscire ad accompagnare la bambina all’asilo, le lega le treccine con il nastro del suo colore preferito, un atto non artistico, ebbene sì, molto “decorativo”, ma enormemente affettuoso nella sua superfluità. Una “cura” che è un bene comune inestimabile, questo sì che non può essere ridotto a merce.
Una atavica sottovalutazione
Viene da chiedersi perché si tende a sottovalutare l’importanza delle attenzioni di cura?
Su questo tasto batte una “esperta” del lavoro di cura, Annalisa Marinelli che, nel libro “Citta della cura” (Liguori, 2016) offre anche un spunto di natura politica: “L’aspetto più duro della cura è dato dal suo scarso riconoscimento sociale”. Resiste ancora “una gerarchia simbolica che ha estromesso il lavoro di cura dalla politica e dalla cultura”, “nel pregiudizio che esso non aggiunga valore ai materiali su cui opera” a causa della sua “gratuità intrinseca “.
È un pregiudizio che svaluta il lavoro di cura, confinandolo ai margini della storia e dei grandi processi, in un ruolo imposto prevalentemente alle donne.
Il riconoscimento di questa dipendenza da una “gerarchia simbolica”, di tipo patriarcale, successivamente incorporata nelle ideologie totalitarie, è presente anche nella riflessione di Marianella Sclavi, che la vede all’origine dei tanti problemi che si incontrano nel prendere decisioni complesse (cfr. dal blog Retake: “Retaker, avete ancora molto da imparare, ma anche gli altri non sono da meno! Intervista a Marianella Sclavi”, marzo 2021 e in questa intervista, contestualizzata, per coincidenza, proprio dalle parti del quartiere romano di Montesacro).
Considerazioni finali
L’attenzione di cura è fondamentale per garantire la dignità e il benessere delle persone che condividono lo spazio delle nostre città, ma non è affatto scontato che questo si possa fare tramite degli interventi di street art. Anche se “autorizzata” (“artistica” o “decorativa” o nessuna delle due) la street art corre facilmente il rischio di essere indesiderata. E forse è giusto che sia così, è la legge della strada, quella della sua imprevedibilità. E’ inoltre evidente che ci sono altre priorità: realizzare un ciclo dei rifiuti efficiente, una maggiore cura delle aree verdi, un sistema di mobilità a misura d’uomo, più servizi a favore delle persone fragili. Sarebbe quindi bene riflettere sugli esiti delle innumerevoli operazioni realizzate sino ad ora. E non sopravvalutare gli effetti “rigenerativi” di un murales. Difficilmente uno strato di colore sul muro o il pavimento è in grado di produrre un effetto “rigenerativo” in un territorio che presenta gravi carenze di altro genere.
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