articolo di Giuseppe Romiti

Una sera, ricevo da un amico del quartiere un messaggio con la foto della facciata della nostra bella scuola, di nuovo imbrattata. La avevamo ripulita appena la settimana prima, fra il plauso dei residenti. Rispondo: ”dove sei?”, lui replica “qui davanti”, chiudo la discussione: “arrivo”. Sulla superficie del pregiato zoccolo in travertino era riportata, enorme, in vernice rossa, una frase di un vecchio rapper romano neanche tanto famoso. Mi dispiacque molto ma, ancor di più, mi rattristò la vista del mio amico, le sue sopracciglia aggrottate, lo sguardo fisso, le labbra tirate. E’ in questi momenti che la rabbia fa vagare la nostra mente in terribili fantasie punitive che, fortunatamente, siamo in grado di reprimere, grazie alla nostra mitezza, cultura e civiltà giuridica. Ma, nell’aria, resta sospesa una domanda: “Che fare?”.
La questione è stata affrontata, apparentemente fuori da condizionamenti emotivi, da molti accademici delle scienze sociali, che si sono confrontati intorno alla nota “Teoria delle finestre rotte” che, nel bene o nel male, è stata presa come riferimento per discutere gli effetti sociali del degrado urbano.
L’esperimento del “finestrino rotto”
La storia è abbastanza nota: negli USA degli anni ’60 il prof. Zimbardo fece un esperimento, descritto in The Human Choice: Individuation, Reason, and Order versus Deindividuation, Impulse and Chaos (University of Nebraska Press, 1970). Un esperimento da lui stesso definito “bizzarro”. Provò ad abbandonare due auto, una nel famigerato South Bronx di New York, l’altra in California, nella civile cittadina di Palo Alto, e le mise sotto osservazione. Inutile dirlo, nel giro di dieci minuti la cosiddetta “economia informale” del South Bronx iniziò ad appropriarsi di tutte le parti del veicolo (batteria, radiatore ecc.). A Palo Alto, invece, durante le sessantaquattro ore di sorveglianza prestabilite, l’unico evento di rilievo fu causato da un passante che si preoccupò di abbassare il cofano per evitare che il motore si bagnasse. Questo servì a Zimbardo per dimostrare che nei luoghi in cui è alto il senso di anonimato, come lo era il South Bronx a differenza di Palo Alto, gli individui tendono ad assumere comportamenti antisociali di fronte ai sintomi di degrado urbano. Ma non finisce qui! il prof decide di spostare l’auto, ancora intatta, nei pressi di Stanford, la sua celebre università, e prova ad integrare l’esperimento con un nuovo test: consegnò una mazza a un suo allievo e gli chiese di mandare in frantumi un finestrino. Questi, dopo alcune esitazioni, obbedì e, ammise lo stesso professore, il gruppo di ricercatori ci prese gusto: uno degli studenti salì sul tetto ed iniziò a saltare, un altro si mise a scardinare le portiere, mentre un altro ancora ruppe tutti gli altri finestrini ed il parabrezza. I passanti, che avrebbero dovuto essere l’oggetto del test, si unirono al divertimento solo con il favore del buio e dopo che la maggior parte dei danni erano stati già fatti. Insomma, non bastò un semplice “finestrino rotto”, ma servì una messa in scena molto più elaborata per causare una distruzione che, più che criminale, si può definire “goliardica”.

La teoria “delle finestre rotte” e la “tolleranza zero”
Facciamo notare che, negli anni ’60, la “Teoria delle finestre rotte” non era stata ancora enunciata, così come la conosciamo ora. Lo fecero nel 1982 altri due accademici, Wilson and Kelling con il loro articolo Broken Windows: The Police and Neighborhood Safety (The Atlantic Monthly, Marzo 1982) che, citando l’esperimento di Zimbardo, ma omettendo la esagerata parentesi “ludica” di Stanford, conclusero, dopo un’ampia serie di argomentazioni, che “Gli scienziati sociali e gli addetti di polizia tendono a concordare che se una finestra di un edificio è rotta e nessuno la ripara, il resto delle finestre sarà presto rotto”. Anche se, detto così, sembra un po’ lapidario, il concetto verrà poi sviluppato per affermare che i segni di degrado materiale e i piccoli crimini tendono a generare ulteriore degrado, in conseguenza del quale possono seguire crimini più gravi. Con la conseguenza di causare nella popolazione un senso di ansia e l’aspettativa di un ulteriore peggioramento.
Questo tipo di ragionamento ebbe molto successo in USA negli anni ’80 e ’90, in un momento in cui la criminalità aveva raggiunto livelli elevatissimi. La teoria ispirò severissime politiche per l’ordine pubblico, orientate alla repressione molto dura dei più diffusi comportamenti antisociali quali: accattonaggio, ubriachezza, vagabondaggio, e piccoli crimini come graffitismo, vandalismo, accesso alla metro senza biglietto. In effetti il numero dei reati negli anni successivi diminuì, ma questo accadde anche in altre città dove la “tolleranza zero” non fu applicata, e la discussione su quali furono i veri rapporti di causa-effetto è ancora ampia e vivace (cfr. Hope Corman & Naci Mocan , Carrots, Sticks and Broken Windows , National Bureau of Economic Research, luglio 2002 e Harcourt & Ludwig, ‘Broken Windows: New Evidence from New York City and a Five-City Social Experiment”, The University of Chicago Law Review, 2006).
Sostenitori e critici
Il dubbio che gli effetti catastrofici di quel dannato finestrino rotto siano stati un po’ sopravvalutati è rimasto. Bisogna però ammettere che alla base del discorso si trova una osservazione di buon senso: “Noi rileviamo che, quando le persone ne vedono altre che violano certe norme sociali o leggi vigenti, tendono a diventare più propense a violare le norme o le leggi, causando la diffusione del degrado”, (cfr. Keizer, Lindenberg e Steg: The Spreading of Disorder, Università di Groeningen, 2008).
La Teoria ha, quindi, diversi sostenitori, ma anche numerosi detrattori, a partire da chi (cfr. Bench Ansfield, The Broken Windows of the Bronx:Putting the Theory in Its Place, American Quarterly, John Hopkins University, marzo 2020) fa notare la debolezza della prova empirica posta alla base: l’auto abbandonata a Palo Alto non fu distrutta dai passanti, ispirati dalla visione del finestrino rotto, bensì fu vittima di una uscita di testa goliardica scatenata dal gruppo dei ricercatori. Nella realtà dei fatti, a Palo Alto, la coesione della società aveva assicurato l’integrità dell’auto per tutta la durata del test.
Ed è proprio sulla coesione, anzi sul capitale sociale, che si concentrano Keuschnigg e Wolbring nel loro articolo Disorder, social capital, and norm violation: Three field experiments on the broken windows thesis (Ludwig- Maximilians-University Munich, marzo 2015). Dove si vuole dimostrare che il “capitale sociale” del quartiere (misurato con parametri quali il tasso di affluenza elettorale, il numero di nuclei familiari stabili, il numero dei bambini residenti) “modera in modo significativo gli effetti del degrado” e che “violazioni della norma si sono verificate meno spesso in aree altamente dotate di capitale sociale” arrivando alla conclusione che un sistema di valori condivisi e un minore senso di anonimato, garantiscono un maggiore ordine sociale, a prescindere da interventi di tipo repressivo.
Considerazioni finali: repressione, manutenzione o capitale sociale?

Non è azzardato avanzare il sospetto che la intuitività dalla Teoria e le sue suggestioni (il mito del “Bronx”, la simbologia dei “vetri rotti”) siano stati usate come potente metafora che, forzandone la base “scientifica”, ha giustificato il ricorso a politiche di ordine pubblico violentemente repressive, rivolte principalmente contro le minoranze etniche e gli strati sociali più poveri. Cedendo all’eterna tentazione di acquisire consenso facendo leva sullo stato di ansia della popolazione, senza però preoccuparsi di incidere realmente sulle cause che lo provocavano. Invece di “riparare”, hanno preferito “reprimere” prendendosela con “le persone,” per soddisfare impulsi di rivalsa o vendetta. Fino a lambire la tragica attualità; notando, per inciso, che George Floyd (“I can’t breath”) è stato ucciso nel 2020 a Minneapolis dopo essere stato accusato di aver spacciato una banconota falsa da 20 dollari (cioè per meno di una rottura di vetro di finestra).
Quindi, cerchiamo di arrivare ad una conclusione, tenendoci fuori dalle dispute accademiche che chissà se saranno mai regolate in modo definitivo.
Prima considerazione (meno importante): meglio citare con una certa cautela la “Teoria delle finestre rotte” se si ritiene fondato il sospetto che essa sia stata manipolata per fornire la base teorica per politiche che, nei libri di storia, saranno ricordate fra gli aspetti più disonorevoli delle nostre pur grandi democrazie occidentali. Tali politiche sono basate sulla cosiddetta “ipocrisia del decoro”. Il termine “decoro” ha così assunto, nell’evoluzione del linguaggio, un significato assolutamente negativo. E’ diventato sinonimo di imposizione di una facciata apparentemente dignitosa che ha il solo scopo di nascondere e controllare realtà scomode o inconfessabili. Un termine che è diventato assolutamente inadatto a descrivere il nostro impegno.
Seconda considerazione: qual è il nostro impegno? di fronte alla frustrazione che proviamo osservando il degrado nelle nostre città, è facile che qualcuno possa abbandonarsi a fantasie di “maniere forti”. Ma, prima che queste siano poste in atto, non sarebbe meglio domandarsi se il cittadino, con la sua autonoma iniziativa, non sia capace di attivare processi virtuosi, per creare un clima più sereno e un ambiente più umano, attraverso la diffusione di una cultura della cura del territorio?
E cosa vuol dire “prendersi cura del territorio”? Fare semplice manutenzione di muri, pali, aiuole, giardinetti, seguendo un pur onorevole desiderio di decoro urbano? O c’è qualcos’altro?

Il professore Gregorio Arena, pioniere e storico sostenitore del principio di sussidiarietà e dei patti di collaborazione, da anni suggerisce una risposta a questa domanda: “la cittadinanza attiva e l’amministrazione condivisa (…) non si limitano a fare qualcosa che comunque potrebbe o dovrebbe fare l’amministrazione (…) fanno molto di più, producono capitale sociale, realizzano forme nuove di partecipazione, sono di esempio agli altri, danno coraggio. Questo non solo e non tanto per gli effetti positivi che questo ha sulla cura dei beni comuni, ma soprattutto per il valore aggiunto che introduce nel sistema sociale, politico ed economico, producendo fiducia, coesione sociale, occasioni di incontro e confronto, pluralismo delle opinioni, esperienze concrete di democrazia e partecipazione.” (Gregorio Arena, Cittadini Attivi, Laterza, 2006, pag. 167).
In definitiva, si propone “una “antropologia positiva” fondata su un altro modo di guardare le persone, considerandole come portatrici non soltanto di bisogni, ma anche di capacità, valorizzando nell’interesse generale le competenze e le infinite risorse di intelligenza e creatività di cui siamo dotati noi italiani” (Gregorio Arena, I custodi della bellezza, Touring Editore, pag. 20).

Il principale risultato da ottenere (il valore aggiunto) non verrebbe dalla manutenzione di un bene materiale, bensì dal far prevalere la fiducia sul sospetto, la coesione sulla solitudine, il confronto sull’incomunicabilità, la partecipazione sull’anonimato, la democrazia sull’autoritarismo, in una frase: “incrementando il capitale sociale”. E’ questo l’approccio che vogliamo assumere nel nostro impegno di volontariato: gentile, festoso, non fazioso, concreto, accogliente, civile e solidale. Da tradurre in un lento e tenace lavoro di coinvolgimento delle comunità urbane nella cura dei beni comuni, per far emergere le tante energie nascoste e favorire il loro impegno, in senso sociale e solidale. E’ così che potremo cambiare radicalmente il volto delle nostre città, per rivestirlo di quella bellezza che scaturisce dall’armonia delle relazioni umane e sociali.
In generale concordo con l’analisi. Però trovo nefasti due termini utilizzati: capitale sociale e beni comuni, che spesso vengono utilizzati a sproposito o a fini di propaganda partitica. Le parole sono importanti: quindi sostituirei la parola “capitale sociale” con “comunità solidale” e “beni comuni”, che non ha alcun significato da un punto di vista giuridico, con “beni pubblici”. Dico ciò perché dalle parole con cui definiamo i fenomeni si crea l’immaginario collettivo. Dietro alle parole “capitale sociale” si annida una visione dualistica (divisa in buoni e cattivi) e gerarchica delle comunità. Dietro alle parole “beni comuni” spesso si annida una visione in cui alcuni cittadini si sentono in diritto di gestire in forma privata spazi pubblici senza bandi, occupandoli abusivamente e sottraendoli alla comunità, quindi in contrasto con il concetto di imparzialità dell’art. 97 della Costituzione. L’art. 42 della Costituzione definisce i beni pubblici o privati, senza alcuno spazio per i c.d. “beni comuni”. Se vogliamo ragionare su un avvicinamento tra istituzioni, intese come organi amministrativi e cittadinanza, dobbiamo partire dal concetto di bene pubblico, dalla responsabilità specifica di chi amministra, di chi governa e dei cittadini che vivono lo spazio pubblico. La questione è culturale, come tutte le questioni dell’umana convivenza d’altronde: la co-gestione degli spazi pubblici tra cittadini e amministrazioni va monitorata e controllata per evitare che diventino privati, come è accaduto spesso a Roma, con spazi in mano a finte associazioni supportate da forze politiche supportate da vere e proprie imprese criminali, che si nascondono dietro alle parole come “beni comuni” e “capitale sociale”, agendo al di fuori della legge e sopratutto in contrasto con la Costituzione e che in tanti hanni si sono arricchite manipolando giovani con la scusa della “militanza”, di destra o sinistra che sia. Per divenire comunità solidale è necessario innanzitutto cambiare mentalità, per cui uno spazio pubblico non è terra di nessuno, non è qualcosa di cui solo l’amministrazione si deve prendere cura, ma luogo di tutti, per cui tutti ce ne dobbiamo prendere cura, ovviamente con responsabilità differenziate tra amministrazione e cittadinanza, senza che il cittadino che si prende cura dello spazio pubblico si senta in diritto di privatizzarlo o di utilizzarlo per fini particolari, escludendo la comunità dal godimento di quel bene pubblico. Il comportamento del cittadino dovrebbe essere innanzitutto quello di astenersi da comportamenti distruttivi e lesivi dei luoghi pubblici, già solo questo cambierebbe enormemente il volto della nostra città. Ma perché ciò accada è necessario cambiare rotta come comunità umane, passando da una società gerarchica, ipocrita, iniqua, ingiusta, ad una solidale, organica, sincera, equa e giusta. E perché possa avvenire è necessario che gli individui cambino mentalità e sappiano unirsi per contrastare civilmente chi agisce contro il bene della collettività, non escludendolo, ma includendolo costruttivamente, cercando più di ogni altra cosa le verità dei fatti e non le verità di comodo a giustificazione dei propri comportamenti, tipiche di chi agisce al solo scopo di mantenere il proprio sistema clientelare. Ritengo che senza questo cambiamento di mentalità non potremo mai arrivare ad una comunità coesa che sappia migliorare la qualità della vita di tutti gli esseri viventi, nessuno escluso, cooperando costruttivamente, attraverso un dialogo continuo. Se andiamo a leggere “The moral basis of a backward society” di Edward C. Banfield del 1958, scopriremo che molti dei principi che il sociologo desume dalle sue analisi dell’Italia, elaborando il concetto di “familismo amorale”, sono tutt’ora, purtroppo, validi. Siamo ancora una comunità arretrata da un punto di vista di coscienza comunitaria e fino a che non supereremo questa mentalità arcaica non riusciremo veramente a trasformare le nostre comunità in comunità felici. Perché poi, alla fine, solo questo conta: quanto siamo felici insieme. https://it.wikipedia.org/wiki/Familismo_amorale
Grazie per l’interessante e articolato commento. Concordo con lei sul fatto che le parole sono importanti ed è importante intendersi sui termini. Forse l’espressione “capitale sociale” può essere ricollegata, in alcuni contesti, a certe visioni ideologiche alla ricerca del “conflitto” a tutti i costi fra oppressi e oppressori o, come dice lei, “buoni e cattivi”, ma credo che questo rientri in una visione molto ristretta che a volte ci viene proposta da qualche realtà locale chiassosa ma un po’ arretrata, comunque marginale.
In ambito accademico, in sociologia, il termine è stato definito da Bourdieu come «la somma delle risorse, materiali o meno, che ciascun individuo o gruppo sociale ottiene grazie alla partecipazione a una rete di relazioni interpersonali basate su principi di reciprocità e mutuo riconoscimento». Esiste una sterminata bibliografia che andrebbe approfondita, ma è fuori di dubbio che questo termine ormai si riferisce al livello di fiducia, partecipazione e progettualità che una data comunità è riuscita ad accumulare. Si può dire che “comunità solidale”, altra bella espressione da lei proposta, non è altro che la naturale conseguenza del buon uso del “capitale sociale”, ossia della rete di relazioni che nel tempo si è riuscito accumulare.
Accanto a questa,che mi sembra una precisazione puramente terminologica, c’è n’è un’altra, più di sostanza, che riguarda l’espressione “beni comuni”, su cui mi sento in dovere di farle notare che nel suo discorso, anche se condivisibile, c’è una lacuna.
Quando lei dice: “uno spazio pubblico non è terra di nessuno, non è qualcosa di cui solo l’amministrazione si deve prendere cura, ma luogo di tutti, per cui tutti ce ne dobbiamo prendere cura,” sta descrivendo il primo passo che spoglia lo spazio (o il bene) della qualifica “pubblico” per farlo diventare qualcos’altro. Purtroppo, nella mentalità diffusa, il bene “privato” è “mio” e me ne occupo io, quello “pubblico” è “loro” e se ne occupano “gli altri”, politici e burocrati. I cittadini che decidono di prendersi cura del bene pubblico scardinano questa maledetta convinzione e creano una comunità intorno al bene pubblico, trasformandolo in bene comune. E’ vero, come giustamente lei afferma, che questo può portare ad abusi per “utilizzarlo per fini particolari, escludendo la comunità dal godimento di quel bene pubblico”. Ma cerchiamo di andare oltre ai pessimi esempi che, in modo direi “selvaggio” si sono presentati nella nostra città. La strada maestra affinché questo non avvenga è ormai tracciata e si chiama amministrazione condivisa basata sul principio di sussidiarità orizzontale.
La Costituzione, è vero, non cita il termine “beni comuni” ma lo contiene implicitamente, sicuramente fin da quando esiste l’art. 118 comma 4 “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.”. Principio attuato nel codice del terzo settore, leggi regionali, regolamenti comunali e sentenze della Corte Costituzionale, che hanno portato alla stipula di centinaia di patti di collaborazione in tutta Italia.
Inteso in questa forma, non è assolutamente vero che il termine “beni comuni” “non ha alcun significato da un punto di vista giuridico”. Lo ha, eccome, se la comunità si prende cura di una bene qualsiasi, materiale o immateriale, nell’ambito di un quadro giuridico fondato sui principi generali stabiliti dalla Costituzione Italiana e, negli aspetti particolari di un dato territorio, da un Regolamento per l’amministrazione condivisa (vigente in tante città italiane). Fino a descrivere i dettagli più operativi tramite un patto di collaborazione in cui amministrazione e cittadinanza, confrontandosi in modo paritario, con il loro accordo diventano una vera e propria fonte del diritto pubblico.
Questo quadro giuridico è ampiamente in grado di tutelarci da spinte particolaristiche. Il Regolamento stabilisce i limiti invalicabili della amministrazione condivisa: “inclusività e apertura”, “Trasparenza”, “pari opportunità”, per esempio. Capirà bene che alcune realtà romane, a cui forse stava riferendosi scrivendo il suo commento, sarebbero costrette a cambiare completamente natura per rispettare questi requisiti. E sarebbe molto salutare per loro, mi permetto di aggiungere.
Lascio la parola al prof. Gregorio Arena nel libro “I custodi della bellezza” che le consiglio caldamente: “Il processo che porta alla creazione di una comunità intorno ad un bene pubblico inizia nel momento in cui un gruppo di abitanti di un quartiere o di un borgo propongono all’amministrazione comunale di stipulare un patto per la cura di un bene pubblico, materiale o immateriale. Questo processo di creazione di comunità ovviamente si sviluppa anche laddove non vi sia la stipula di un patto e un gruppo di cittadini spontaneamente cominci ad occuparsi di un bene pubblico, senza però che ciò produca la trasformazione del bene pubblico in bene comune. Ciò avviene solo nei casi in cui si applica il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni, cioè solo dove si stipulano dei patti, perché questi creano un legame giuridico, duraturo e strutturato fra i cittadini attivi, i beni comuni oggetto del loro intervento e l’amministrazione proprietaria di quei beni, che non si crea laddove il Regolamento non è vigente.”
Nella città di Roma, purtroppo, dopo varie vicissitudini, non siamo ancora arrivati a emanare un regolamento per l’amministrazione condivisa, qualsiasi sforzo orientato a risollevarla non potràprescindere da questo obiettivo.
Grazie per l’attenzione.
[…] però preoccuparsi di incidere realmente sulle cause che lo provocavano” (cfr. blog Retake Roma, “Contro l’ipocrisia del “decoro”: repressione, manutenzione o capitale sociale? La Teoria de…, marzo 2021). Se c’è un limite in queste analisi, lo si trova in quel modo di guardare le […]