Articolo di Giuseppe Romiti
Sommario: Parliamo di un quartiere “speciale”, nel quale i problemi che affliggono Roma si manifestano in modo più acuto rispetto al resto della città offrendo la visione di un forte declino. Forse si potrebbero immaginare le soluzioni necessarie affinché questo non diventi irreversibile, ma la politica e la società civile non sembrano capaci di stabilire priorità e strategie comuni in modo efficace.
Qualche sabato fa abbiamo aiutato gli esercenti del mercato di largo degli Osci a sgombrare i rifiuti (bottiglie e bicchieri abbandonati durante la notte) che ostruivano l’accesso al mercato. Dando un’occhiata in piazza abbiamo notato che un’associazione si stava prendendo cura di un po’ di bambini residenti. Lo faceva con fantasia e delicatezza, almeno così sembrava. È il lato positivo di questo angolo di città, fatto di persone di buone idee e buona volontà, associazioni di volontari, gruppi sportivi, parrocchie, nuclei familiari, singoli individui, che hanno capito, oltre le tante chiacchiere, che se non ci prendiamo cura delle nuove generazioni non ci sarà alcun futuro.
Non abbiamo potuto fare a meno di pensare al contesto in cui questi bambini sono costretti a vivere, al messaggio di abbandono, incuria e sregolatezza che subiscono osservando il paesaggio urbano.
È difficile spiegare a un bambino il perché di quegli alberelli moribondi in piazza, con i loro tronchi scorticati a sfregio, dei bicchieri lasciati sul cofano delle auto, nonostante il contrassegno di disabilità del conducente, delle montagne di rifiuti che gli esercenti del mercato sono costretti a rimuovere solo per iniziare a lavorare. E che dire del rumore della folla vagante alle 4 del mattino che fa impazzire i genitori, mentre dovrebbero prepararsi ad affrontare un’altra faticosa giornata di cura delle persone care, e di lavoro. Ancora più difficile diventa spiegargli perché tenere in ordine la cameretta e i quaderni di scuola quando il modello che si impone, non appena si affacciano dal portone di casa è l’anarchia del traffico e del writing vandalico che devasta i muri, senza risparmiare neanche un metro quadro della chiesa dell’Immacolata, patrimonio popolare e riferimento spirituale del quartiere. E così molti genitori fanno fatica ad immaginare lì dentro, per i loro figli, percorsi di maturazione umana equilibrati e positivi.
San Lorenzo si sta spopolando e sta invecchiando (solo il 18% della popolazione è sotto i 30 anni). I nuovi nuclei familiari non lo scelgono più come luogo di residenza nonostante ci troviamo nel Municipio II che occupa, nelle mappe delle disuguaglianze della città di Roma, una posizione privilegiata rispetto alle periferie e alle borgate. Questo avviene in controtendenza rispetto al fatto che, negli ultimi anni, sia diventato meno oneroso affittare o acquistare un’abitazione (dal 2008 al 2018 i valori immobiliari del quartiere sono diminuiti in media del 26,6% pur restando su livelli sostenuti). In parallelo, molti nuclei residenti, che forse non si possono permettere di cambiare zona, preferiscono comunque mandare i figli a scuola altrove, nonostante un corpo insegnante locale di tutto rispetto. Si è così innescata una preoccupante dinamica decrescente della popolazione (da 11.146 abitanti – 2001 – a 8.934 – 2018) e la trasformazione della struttura dei nuclei familiari (ben il 56% costituiti da solo 1 componente, quasi record assoluto per la città). La fuga delle famiglie ha quindi favorito la trasformazione di molti appartamenti in case vacanza (ben 471 alloggi offerti solo su Airbnb nel 2019). (Tutti i dati sono Fonte ISTAT tramite www.mapparoma.info)
Il fenomeno dello spopolamento riguarda tutte le aree di centrali e semicentrali di Roma, in uno scenario generalizzato di crisi demografica e di diminuzione del potere di acquisto dei nuovi nuclei familiari. Ma quello che qui interessa evidenziare è che San Lorenzo ne soffre in modo più grave rispetto alle altre zone residenziali del semicentro romano.
I più accorti lo ripetono ormai da tempo: si può ragionevolmente ammettere che il clima di sfiducia, determinato dal senso di ostilità e di bruttezza percepito nell’ambiente urbano, aggrava la perdita delle caratteristiche residenziali, e spinge ancor di più San Lorenzo verso un destino di mera zona di transito fra poli di trasporto, parcheggio per i lavoratori degli uffici e, principalmente, di infrastruttura alberghiera, ristorazione e intrattenimento, dedicata a turisti e avventori notturni in cerca di luoghi (lontani – ovviamente – da casa propria) in cui compiacersi del clima di anarchia e di trasgressione.
Purtroppo, di questo sembra che non ne sia pienamente cosciente la politica (a parte lodevoli eccezioni), vista l’inefficienza dei servizi per il territorio e, d’altro verso, l’enfasi posta sulla politica di intrattenimento notturno (spesso dichiarata con intenti “culturali”) e sugli interventi di tipo effimero e decorativo (murales), entrambi a vantaggio dei “consumatori” esterni al quartiere piuttosto che a servizio dei residenti.
Lo scenario è oggettivamente inquietante, le cause di questa crisi si nascondono nella complessità della società contemporanea e sono difficili da interpretare e da affrontare. Specie se si considera che accanto ai problemi di malgoverno e maleducazione troviamo anche lo smarrimento e la ricerca di senso di migliaia di avventori notturni giovanissimi, per lo più minorenni. Allora, per la sopravvivenza di questo piccolo lembo di città, cerchiamo almeno di riconoscere le priorità.
Iniziamo a notare che la prospettiva di desertificazione del quartiere sembra dipendere anche dalla libera (e comprensibile) volontà dei singoli e dei nuclei familiari di non far crescere i loro figli in un ambiente così difficile, piuttosto che essere determinata dalle logiche di profitto di gruppi alberghieri o dalle incongruenti realizzazioni di singoli costruttori (o ‘palazzinari’ come qualcuno ama chiamarli). Anzi, di fronte alla gravità della situazione, si è indotti a pensare che non sia per forza un male, perché quelle iniziative, se opportunamente gestite (a cominciare dagli oneri di urbanizzazione), sono capaci di distribuire un po’ di ricchezza e contrastano la fatiscenza dei fabbricati che fanno di San Lorenzo il quartiere con uno dei peggiori indici di disagio edilizio secondo la metodologia definita dal Comune di Roma (solo 8 peggiori su un totale di 158 zone urbanistiche – www.mapparoma.info).
Nello stesso tempo si fa largo, nella coscienza degli abitanti, la convinzione che il principio di legalità, piuttosto che essere l’arma dei “poteri forti”, sia invece a difesa dei più deboli. Di pari passo avanza l’idea che i modelli che hanno in parte caratterizzato la storia recente del quartiere, basati sull’antagonismo e le occupazioni, nonostante abbiano prodotto alcuni significativi risultati, possano ispirare, direttamente o indirettamente, comportamenti irrispettosi, basati sulla pretesa di rappresentare tutto il quartiere quando, invece, ne sono solo una parte. D’altro canto, si è reso evidente come l’attitudine “antagonista” dei centri sociali, una volta svuotata dei suoi contenuti politici e sociali, fornisca il pretesto e il contesto favorevole alle molestie di tanti “visitatori” del quartiere, alla ricerca del puro piacere della trasgressione fine a sé stessa.
Una ultima considerazione su questa componente sociale che opera nel quartiere riguarda le sue proposte di sviluppo, basate costantemente sulla richiesta di significativi e onerosi interventi statali, proprio da parte di quello Stato che sarebbe espressione di ideologie e modelli (“neoliberali”) che avversano fortemente. Interventi che, comunque, sarebbero auspicabili ma, se ci confrontiamo con i vincoli dell’economia reale e non con quelli vagheggiati da ideologie smentite dalla storia o a fini elettorali, sospettiamo che siano realizzabili solo in piccola parte.
Passando invece ad un versante di opinioni opposto, viene da osservare come, sostenendo il sacrosanto principio di legalità, si possa facilmente scivolare in logiche rigidamente securitarie ed egoiste che tendono ad esorcizzare la rabbia e l’indignazione affidandosi unicamente alle tradizionali politiche repressive e di controllo (comunque inevitabili di fronte a certi eccessi). Mentre sappiamo che la tenuta della società è messa a rischio non solo dal mancato rispetto della legge, ma anche dall’indifferenza verso gli effetti della povertà materiale e spirituale sempre più diffuse. Quando il richiamo alla legalità diventa astratto, slegato dalla considerazione delle fragilità sociali, si favorisce inevitabilmente l’emarginazione dei soggetti più deboli, giustificando chi punta il dito contro la cosiddetta “ideologia del decoro”.
Le due logiche appena esposte, con le loro ragion d’essere e contraddizioni, hanno un elemento in comune. Entrambe si basano sull’illusione che lo Stato possa svolgere un ruolo egemone (di sostegno o di repressione/controllo) nonostante la crescente complessità dell’attuale contesto culturale, sociale, politico ed economico. Mentre è evidente che il modello tradizionale basati sul bipolarismo “Stato-fornitore dei servizi/Cittadino contribuente e destinatario passivo di quei servizi” è sempre meno in grado di adempierlo pienamente.
Il quadro dei diversi modi possibili di affrontare la crisi, è ampio e diversificato e si ritiene utile, per continuare la discussione, aggiungerne un altro che può affiancarsi ed integrare i precedenti. E’ l’approccio basato sulla diffusione, relativamente recente, della pratica dell’amministrazione condivisa, in applicazione del principio di sussidiarietà (art. 118 della Costituzione Italiana).
Approfittando dei margini e delle leve ormai disponibili, la cittadinanza attiva può progettare, insieme alla pubblica amministrazione, interventi a favore della comunità operando fuori da logiche di profitto, in modo trasparente, inclusivo e condiviso. Restando ben ancorati alla concretezza delle situazioni reali, facendo uscire le persone dall’anonimato, creando relazioni, fiducia, coesione sociale. Liberando enormi e provvidenziali energie dalla società civile che, altrimenti, giacerebbero inutilizzate.
Energie che, scrive Walter Tocci nelle pagine del suo ultimo indispensabile libro su Roma, riuscirebbero a “suscitare un movimento politico a favore della riforma del governo metropolitano e a contribuire alla formazione di una nuova classe dirigente” in un momento storico in cui “Lo Stato del comando e controllo non comanda e non controlla più, come dimostrano l’ipertrofia legislativa e l’illegalità diffusa. Lo Stato del welfare non ha ancora risolto il problema della standardizzazione delle risposte alla molteplicità dei bisogni. Lo Stato che voleva diventare regolatore dell’economia, ha finito per essere regolato dal capitalismo globalizzato”. Si apre quindi uno scenario in cui “il governo di prossimità è il luogo appropriato per andare oltre i vecchi modelli e sperimentare la condivisione tra le finalità pubbliche e l’azione sociale”. E questa innovazione non sarà solo “formale, ma implica un ribaltamento della logica dello sviluppo. La collaborazione va in collisione con l’appropriazione estrattiva dell’economia finanziarizzata e sollecita la generazione e la cura dei beni comuni, ben oltre la vecchia antinomia fra pubblico e privato.”. (“Roma come se – Alla ricerca di un futuro per la capitale”, Donzelli Editore , 2020, pagg. 254-260)
Il tono visionario scelto da Tocci potrebbe sollevare il dubbio che si tratti di un ottimistico esercizio di immaginazione, ma basta guardare ai fatti, ai tanti patti di collaborazione che sono stati applicati con successo in molte realtà italiane (cfr. a questo proposito gli esempi forniti dall’associazione Labsus).
Per concludere, mentre il quartiere sembra trascinato da una deriva inarrestabile, i diversi soggetti che potrebbero intervenire, Stato, economia privata e cittadinanza attiva, rischiano di trovarsi nella spiacevole posizione di spettatori impotenti della sua fine. La nostra diventerebbe così l’ultima generazione che potrà raccontare di aver vissuto una sana socialità prima della trasformazione in un territorio ludico-alcolico-tossico.
Per evitare di essere ricordati per questo triste primato sarebbe il caso di dare fondo alle ultime energie, per non dover gettare la spugna.
Sarebbe il caso che i diversi approcci, alcuni dei quali accennati in precedenza, riescano ad elaborare le scelte nell’ambito di un processo di confronto e condivisione. E’ quello che auspica da tanto tempo Marianella Sclavi, grande esperta di confronto creativo e ascolto attivo. Il metodo che lei propone suggerisce di calarsi nei panni dell’altro e mettere in discussione le proprie “certezze”. Non si tratta di fare i “buoni”, piuttosto di ammettere che non è questione di “vinco io/ perdi tu”, perché quasi sempre ci sono delle scelte nuove e diverse che potrebbero emergere da un confronto creativo. E che lo scopo del dibattito non è mediare fra le diverse posizioni mutilandole tutte, bensì superarle trovando insieme quella che nessuno aveva in mente all’inizio e che è certamente la migliore.
Ma qui viene da sorridere: basterà la minaccia di una ineluttabile estinzione a convincere i generosi sanlorenzini, così individualisti, testardi, orgogliosi e sospettosi, a mettersi d’accordo?
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